lunedì, gennaio 10, 2011

DIPENDENZA AMICALE E MODELLI DI COMPORTAMENTO

marialuisa Età: 45
Dipendenza amicale e modelli di comportamento
Gentilissimo dott. Cavaliere
Sono una donna di 45 anni, non sposata e affermata professionalmente, che ha vissuto per buona parte della sua vita in situazione di dipendenza affettiva e che solo negli ultimi 10 anni ne ha preso consapevolezza. Questo non è bastato a far cessare lo stato di dipendenza, ma indubbiamente qualche progresso vi è stato. La dipendenza affettiva si è sempre rivolta a figure femminili, prima mia madre e poi le mie amiche. Al momento i due uomini che ho avuto come partner, per brevi periodi, non hanno svolto ruoli significativi. Il che ovviamente non è privo di significato, anche se non so bene quale esso sia.
Quello che vorrei sottoporre alla sua attenzione è il modello di comportamento
che accompagna ogni storia di dipendenza. Solitamente essa ha inizio con una
nuova amicizia, che sembra colmare un vuoto emotivo che costantemente ha accompagnato la mia vita. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che hanno difficoltà o addirittura di emarginate. Dopo un primo entusiasmante
periodo di conoscenza, che spesso (non sempre) conduce a un’identificazione con l’altra e la sua vita, iniziano le difficoltà. Come può immaginare la perdita di identità reca con se l’adattamento e la sopportazione di atteggiamenti e stili di vita che spesso non fanno parte del mio corredo di valori. Seguono delusione, frustrazione e disprezzo. La mancata espressione delle mie esigenze induce alla fine al conflitto e la pretesa di avere indietro quello che ho dato spinge la persona a ritrarsi sempre più. La fase finale è segnata da un crescente dissidio e da un enorme sofferenza e senso di vuoto, fino alla rottura. In 20 anni ciò è accaduto almeno 5 volte, segnando negativamente buona parte dei miei rapporti amicali. Quando le amicizie sono sane, e fortunatamente in alcuni casi è così, non vi è pretesa, sovrapposizione, perdita di identità.  Una di queste per esempio dura da 30 anni.
Per molti anni ho vissuto queste storie come eventi sfortunati, ma a un certo punto la sofferenza vissuta a causa di un amicizia mi ha portato a una situazione di grande difficoltà emotiva e di depressione, che mi ha costretto a riconoscere che qualcosa non andava. Non dormivo, ero ossessionata dal suo pensiero, avevo sintomi depressivi e difficoltà a svolgere qualsiasi attività.
Ho iniziato a leggere libri sulla dipendenza e a frequentare il suo sito.
Conosco tutta o quasi la teoria, ma è la pratica la parte difficile.
Certamente, come le dicevo, ho fatto molti progressi. Per esempio, noto che in molti contributi si pone l’attenzione sul soggetto da cui si dipende, sul suo narcisismo e su altre sue caratteristiche. Ma io so, e tutti noi dipendenti dovremo sapere, che prima di tutto dovremo guardare ai nostri problemi e concentrare gli sforzi sulla cura di noi stessi. In questo senso la lezione della Norwood è tra quelle più utili e da tenere presente. Dopo l’ultimo conflitto, avvenuto un paio di mesi or sono, con la mia amica storica (quella che mi ha costretto a tanta sofferenza da costringermi a analizzare a fondo me stessa) ho avuto per un certo tempo la tentazione di rivolgere tutto il mio rancore e la mia rabbia verso di lei. Ma so bene che devo pazientemente riprendere il cammino e la terapia del recupero. Oggi la sensazione di vuoto non è lontanamente paragonabile a quella di 8-9 anni fa ed è sempre più limitata. Se mai perdura più a lungo la rabbia.
A questo riguardo devo dirle che mi è stata di grande utilità la lettura del libro “la ferita dei non amati”, che certo lei conosce, dove si cerca di far luce sui modelli di comportamento e sulle energie positive e negative che essi esplicano. Secondo l’autore le pressioni esterne (anche familiari) generano in noi flussi positivi e negativi di energia, che seguono un certo modello appunto. Nonostante mi sforzi non riesco a collegare il mio modello alle dinamiche familiari e alle pressioni da esse esercitate su di me. So che la mia famiglia è disturbata, nel senso che in essa ho sofferto la fame d’amore e di riconoscimento e non era certo una famiglia aperta ai discorsi sui sentimenti.
Mia madre è secondo me una dipendente e mi ha comunicato un idea degli uomini non positiva, e nel suo ruolo di vittima non ha saputo darmi l’amore di cui avevo bisogno. Mio padre è un uomo autoritario e che fatica a esprimere affetto. So che mi vogliono bene e non riesco a provare rancore alcuno verso di loro, anche se in passato ho dato loro molte colpe.
In questo quadro la mia dipendenza avrà un senso, che se comprendessi fino in fondo potrei affrontare meglio. Perché rivolgo la mia dipendenza alle donne? Le fasi che le ho descritto che significato hanno? Mi sono chiesta se sia un comportamento omosessuale, ma non provo attrazione verso il genere femminile e la provo verso quello maschile. Però esso non ha rappresentato l’esperienza affettiva più importante fino ad ora. Mi chiedo se per caso non vi sia una scissione tra eros (verso gli uomini) e agape (verso le donne).
Se il mio intervento venisse pubblicato vorrei dire a tutte le donne che soffrono di dipendenza che è possibile attenuare il mal d’amore e limitarne la sofferenza. In questi 10 anni ho dovuto mio malgrado compiere sforzi enormi per conoscermi e analizzare me stessa, per cercare di capire e provare ad amare. Ma questo è avvenuto solo ed esclusivamente quando ho abbandonato il ruolo di vittima e ho spostato l’attenzione dall’altra (o altro per la maggior parte delle donne) a me stessa.
La ringrazio per l’attenzione e per questo sito
marialuisa

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