tania l. gobbett Età: 43
Ho detto superificialmente credo, anzi ingenuamente, ad
un analista che doveva certificare se soffro o meno d'ansia
quando credevo di averla superata tranquillamente e
finalmente in un senso più quieto e dinamico,
che dato che mi piace l'arte e vorrei continuare ad insegnarla
forse sono un tipo livemente narcisista quando l'altro cerca
di apprezzarmi per questo soltanto, ritirandomi un po' dietro
la cattedra, qualche volta, come un gufo o un picchio,
uno scoiattolo nella casetta - è vero do' un'importanza particolare
all'analisi del testo e mi diverte, come da piccola giocando
all'elastico o saltando sui numeri e giocando agli insiemistica,
ma non per questo ingigantisco il suo ruolo rispetto alla situazione
di fruizione o al contesto produttivo se rientra - mi interessa
l'analisi dettagliata è questo (una volta un quadro mi ha preso
globalmente per quanti colori e come erano disposti per descrivere
delle onde a Monaco), ma sempre con il tempo - sono una di quelle
persone che talvolta concentrandosi, su un'opera, la indaga
minuziosamente in cerca della verità che esso enuncia,
ma non per questo resto abbacinata, anzi la descrizione mi porta
a ridistendere la rete, non so come dire altrimenti - sono infatti
una miriade i fattori che mi colgono di soppiatto e spesso, nella
mia esperienza, non di meno è il contesto di esposizione,
il come, lo spazio neutro lasciato tra le opere -
A volte mi prende come al lazo, proprio
l'innesco di poesia e pittura, così facendo mi accorgo di altri punti di
vista, come se non so se qualcuno si ricorda, d'esser stati fatti volare in
braccio, o ruotare in torno, è come vedere le cose da un punto i vista
differente decentrato; a volte mi improvviso poeta per poter entrare
empaticamente nel vestibolo suggestivo dell'opera: non crede che sia
l'esatto opposto di una personalità centrata solo su di se,
narcisista e fusionale capricciosamente?
Io sinceramente sono un po' menefreghista - se potessi
viaggerei anche da sola attorno al globo
- detesto essere condizionata troppo -
ma l'altro è l'armonia con cui puoi vedere un senso al tutto -
è il respiro del mondo e non riesco a fare a meno:
mi siedo sui quei gradini e guardo anche
per un'ora soltanto la folla, di questo si riesco ad innamorarmi -
a stupirmi - come la domenica in piazza maggiore -
dove non passano le auto e la gente sta
lì a leggere il giornale e parlare del più e del meno senza conoscersi
neanche o stando zitti insieme - l'individuo che sbuca dalla natura stessa
della città, il bosco in una montagna in cui il cerbiatto cerca il suo sentiero,
i delfini da una nave, le nuvole...che diventanto verdi e rosse viste da
est-ovest su un ponte parigino - no, la bellezza è contemplabile: per me
l'immersione in acqua con maschera e pinne equivale alla rinuncia a qualcosa,
all'accettazione di un rischio: poter contemplare qualcosa che altrimenti non
puoi cogliere - ma non c'è nulla di autocontemplativo, banale dirlo, l'unica
componente autocontemplativa che ho sperimentato in vita mia è il
vipassana-joga (forma più o meno complessa di autoterapia microshiatsu) e lo
specchio di casa dove mi considero un po' una maschera di mimo... niente di
più - come se un po' di coreografia male non facesse, comunque lo specchio a
volte mi rassicura - vedersi cambiare, scorrere e rassicurarsi di dominare il
proprio modo di fare quanto basta. Da piccola solo una volta mi sono divertita
da pazzi a mettere sulla faccia una maschera bianca per vedere cosa sarebbe
successo al mio viso: ero sorpresa... ci vedevo il teatro nella sua capacità di
realizzare un'altra parte di sé che vive autenticamente nel gesto e nel
racconto.
Non me ne frega nulla se una persona persino si gira mentre le parlo,
se questo vuol dire qualcosa lo deve alla propria comunicazione non verbale,
quello che desidero in quel momento in genere, è poterla sorprendere
improvvisando una comunicazione alternativa, o anche sperimentando
il mio essere e basta e il suo essere e basta, fuori dalle propriezioni immagino.
L'ho sperimentato sviluppando un negativo con una mia amica -
ci si dicono cose che altrimenti non si ha il coraggio di dire, perché non so.
Se lo spazio dell'enunciazione, del discorso è il luogo intersoggettivo
del fare muro a qualcosa, favorendone
un'espressione propria, non ci vedo nulla di male, ma torno a pensare che
prima o poi l'attore di riprenda la sua parte e dia vita nuovamente al corso
degli eventi, tentando di dare a queste una prospettiva intersoggettiva
identitaria necessaria a comprendere il destino umano - tra sè e ciò che spera
l'altro potrà essere in quella sensazione di separatezza che scorre tra gli
individui, dove tutto è germinalmente possibile... non che io dia solo
importanza al racconto, ma la sostanza dello scibile in cui si immerge è sempre
differenziale, non riesco a fondere le due cose, è come se individui diversi,
abbiano compiti registici in cui è possibile incontrarsi, così l'immagine e il
testo, che può essere altrettanto 'astratto', ma offrendo quell'incontro
sono sempre comunque a cospetto dei propri incipit ed exit - rispettano quel
vestibolo dato, e se indovini, coreograficamente, restituiscono comunque uno
spazio proprio, un tempo e un valore assunti.
Mi spiace, le legge (la medicina ha le sue) dice che la prova autoctica vale
poca cosa, il paziente non sa il valore la gravità di una cosa, è un dieci %
rispetto all'anamnesi, perché più spesso definisce un comportamento sociale
percepito e assunto più che un proprio. Esempio, cado su uno scalino tagliente
che non è stato smussato: guardo attentamente il solco dolorante che
ancora non sanguina chidendomi se sarà rotto sotto - ma non lo so ancora...
non necessarimanete è rotto. Probabilmente il medico mi guarderà splancando
occhi e orecchi e poi regalandomi un sorriso guancia a guancia mi dirà
è tutto ok e se sono stata brava a non sporcare e infangare la ferita,
si complimenterà... non per etichetta, per conoscenza di una forma
intrinseca dell'educazione: il rispetto.
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